Julián
Pagavo l’albergo a settimane e quando pagai l’ultima comunicai a Roberto che lasciavo la stanza. Si stupì che volessi lasciare una suite a quel prezzo quasi irrisorio e cercò di spiegarmi che se facevo un confronto con gli altri alberghi avrei visto che ero un cliente privilegiato e che lo spiacevole episodio che mi aveva costretto a lasciare la mia stanza normale per passare alla suite sarebbe potuto accadere da qualsiasi parte, ma che lui stesso si era impegnato a non farlo ripetere e ci era riuscito. Capii che essendo in bassa stagione era suo dovere cercare di trattenere i clienti in qualunque modo. Tanto valeva tenere occupata una suite al prezzo di una doppia che tenerla vuota.
Misi fine alla descrizione delle meraviglie dell’albergo di cui stavo godendo senza saperlo e gli dissi che non era una questione di soldi, ma che me ne andavo. Se avessi avuto più tempo non mi sarebbe venuto in mente di lasciare l’albergo. Le vacanze erano finite, tornavo nel mio paese. Roberto rimase spiazzato - noi pensionati avevamo tutte le vacanze del mondo - ma non disse niente, sapeva tenersi le sue curiosità per sé. Gli comunicai che lasciavo anche la macchina a noleggio e che restituivo alla camera una coperta che avevo preso in caso di emergenza e un asciugamano. Per andare in aeroporto avrei preso un taxi.
Roberto fece portare giù i miei bagagli e insistette per chiamarmi un taxi, ma declinai l’offerta: preferivo fermarne uno in strada, dissi, e oltretutto dovevo perdere un po’ di tempo prima della partenza dell’aereo. Per niente al mondo volevo che potessero identificare il taxi e chiedere dove mi aveva portato.
«Mi spiace», dissi con tono scherzoso. «Sono le mie ultime volontà.»
E così lasciai il Costa Azul alle undici della mattina, trascinando una valigia con le rotelle e con un borsone in spalla. Quando fui abbastanza lontano dall’albergo da avere la certezza che nessuno potesse seguirmi, fermai un taxi e chiesi che mi portasse alla residenza per anziani I Tre Ulivi. Durante il viaggio mi guardai indietro diverse volte ma non vidi nessuno. La mia decisione li aveva colti di sorpresa: Tony non si trovava in albergo e non avevano avuto il tempo di attivarsi.
Questa volta, arrivato ai Tre Ulivi, mandai via il taxi.
Mi piacque l’aspetto del giardino, con diversi tipi come me ben coperti che giocavano a bocce, facevano commenti sul fatto che uno era più lento dell’altro e parlavano di calcio. Mi diressi all’ufficio e trovai di nuovo la prosperosa delle volte precedenti.
Fece finta di non ricordarsi di me, ma si ricordava eccome, e non capivo perché lo negasse, a meno che all’inizio non fosse abituata a dire di no a tutto.
Fui chiaro. Le dissi che non volevo essere un peso per mia figlia e che se mi avessero fatto un buon prezzo da lì fino a che non fossi morto e mi avessero dato la stanza che aveva occupato il mio amico Salva, sarei rimasto con loro.
«Lei è molto bella e molto intelligente e mi piacerebbe passare il resto dei miei giorni in un posto in cui posso vederla. Mi rallegrerebbe molto la vita.»
«Non mi dica che anche lei ha una bella parlantina come Salva.»
«Anche Salva era rimasto qui per te?»
«Tutti restano qui per questo», disse scoppiando a ridere. «Quella camera è occupata da una settimana», aggiunse un po’ più seria, «ma vedrò cosa posso fare per metterti lì. Mi chiamo Pilar.»
Ero appena entrato nella vera vecchiaia. Ero nelle mani di Pilar. Lei mi aveva dato del tu appena aveva capito che ero suo. Uno in più per Pilar. E con molto piacere. Era quello di cui avevo bisogno, una Pilar, le bocce e gente che aveva vissuto un’intera vita e a cui veniva fatto un regalo inatteso.
Aspettai seduto su una panchina che Pilar risolvesse la questione della mia camera quando a un certo punto vidi passare davanti a me - come una visione, come se stessi dormendo e stessi sognando avvenimenti e persone di quei giorni mischiati fra loro senza alcun senso - vidi passare, dicevo, e andare verso il giardino Elfe.
Appena riuscii a reagire le corsi dietro, ma Pilar mi fermò.
«Dove andiamo così di fretta?»
«Mi è sembrato di riconoscere una persona.»
«Be’, avrai tempo: da qui non se ne va nessuno.» Non rise, come sarebbe stato normale. «Ora prendiamo possesso della stanza di Salvador, hai avuto fortuna. E ti spiegherò un po’ di cose.»
Una cameriera aveva finito di sistemare la stanza. Lasciai la valigia in un angolo e la borsa sopra una piccola scrivania. La finestra era aperta e l’aria che entrava si portava via gli umori del precedente inquilino e faceva filtrare la presenza invisibile di Salva.
La struttura non era un granché. C’erano pochi «giovani anziani», per cui i campi da tennis e da padel non avrebbero reso molto. La cucina era pulita, e la cosa migliore era una piscina coperta piuttosto piccola che costituiva l’orgoglio dell’ospizio. Pilar mi disse che quando l’avessi provata non sarei più voluto uscire da lì, ma a me la ginnastica svedese aveva sempre fatto piuttosto bene e non sapevo se avrei avuto il coraggio di cambiare.
«Salva nuotava lì?»
«No, diceva che aveva più fiducia nella ginnastica che faceva, ginnastica svedese, credo.»
Parlavo, guardavo e ascoltavo le spiegazioni di Pilar pensando a Elfe.
Fui quasi sul punto di domandarle se nell’ospizio ci fosse una donna tedesca, più o meno della mia età, ex alcolizzata o alcolizzata, di nome Elfe, e in caso affermativo chi l’avesse portata. Ma non glielo chiesi: non volevo svegliare il can che dorme appena arrivato.
Aveva ragione la prosperosa, avrei avuto tempo; adesso era il momento del pasto. Certo che quello non me lo sarei proprio aspettato. Non l’avevano ammazzata, l’avevano rinchiusa in un ospizio. In fondo ucciderla sarebbe stato più compromettente che portarla in quella riserva dove qualsiasi cosa avesse raccontato sarebbe potuta passare per un’allucinazione.
Non ebbi tempo di aprire la valigia: dalla mensa arrivavano effluvi di zuppa e di pesce e un rumore di piatti. Quando entrai, rimasi un po’ in disparte perché tutti sapevano dove sedersi e io non volevo rubare il posto a nessuno per dovermi poi alzare. Aspettai che rimanesse un posto libero: ero ansioso di vedere Elfe seduta a qualche tavolo.
Un uomo grosso mi fece segno di sedermi al suo fianco. Mentre mangiavamo non la smetteva di parlare. Io non mi accorgevo di niente, ero concentrato sull’arrivo di Elfe. Su quanto lontani erano Sandra e il suo futuro figlio. Era stato un dono del cielo come tanti regali che mi aveva fatto la vita. Non tutti erano stati ricompensati come lo ero stato io. A mia figlia avevo detto che avevo trovato una struttura alberghiera per gente della mia età e che sarei rimasto lì qualche altro mese. La casetta che mi piaceva tanto alla fine era stata affittata e io non avevo più voglia di cercare. Si sarebbe dovuta accontentare di un albergo quando fosse venuta a trovarmi. Le dissi anche che mi mancava molto ma che era giusto che ci prendessimo i nostri spazi.
Arrivati al dolce dissi all’uomo grosso che un amico mi aveva incaricato di dare un messaggio a una certa Elfe, una donna tedesca che aveva qualche problema.
«A volte viene a mangiare e a volte no, ha presente...» e fece il gesto di alzare il gomito.